sabato 15 dicembre 2007

Kosovo indipendente. Una lettura storico antropologica di questa regione balcanica


Nell’ultimo periodo il Kosovo è tornato alla ribalta dell’attenzione pubblica mondiale, con le elezioni del 17 novembre che hanno consacrato Hasim Thaci (ex UCK) come leader politico indiscusso, con le posizioni divergenti di USA e Russia sul futuro di questa regione e con le dichiarazioni di Thaci sulla proclamazione del Kosovo indipendente come stato a maggioranza albanese da realizzarsi nel primo periodo del 2008. Quello che si sta consumando in Kosovo è un ennesimo strascico di guerra fredda: la Russia appoggia la Serbia nella rivendicazione del Kosovo come territorio Serbo, diametralmente opposti gli Stati Uniti che appoggiano l’etnia albanese ed il loro diritto di sovranità in un territorio che li vede maggioranza schiacciante. In questa situazione di stallo è l’Unione Europea che dovrebbe trovare un ruolo di mediatore per garantire che l’instabilità della regione e le posizioni divergenti delle due potenze non facciano precipitare nuovamente la situazione già di per sé precaria ed insostenibile per i suoi abitanti. Ma i lavori della Troika, gruppo di lavoro formato da UE, Usa e Russia, per trovare un accordo sul futuro della regione, sono falliti. La domanda più banale che ci si può porre è: ma perché il Kosovo è sempre stata una regione problematica? Oltre alle solite risposte che già si sanno e che sono state usate per giustificare la guerra del ’99 ed una occupazione militare e civile da parte di NATO ed ONU che dura tutt’ora (l’oleodotto che dovrebbe passare in questa regione, il fatto che il Kosovo sia la culla storica religiosa della Serbia, il fatto che se diventa uno stato porterebbe instabilità in tutta la regione balcanica nonché sarebbe un precedente pericoloso per i baschi, il Caucaso, ecc.) proviamo a svolgere un’analisi diversa, che vada alle radici storico antropologiche di questa complessa regione. Nella storia della Jugoslavia il Kosovo ha sempre svolto il ruolo di regione “scomoda”: piccola, povera ma contesa ed inserita in logiche geopolitiche e di rivendicazioni storiche e culturali sfuggenti. Tutto questo è ben espresso in un famoso libro di Noel Malcolm, che narra la storia di questa tormentata regione e che ne esprime perfettamente la sorte tragica: “la crisi della Jugoslavia è cominciata in Kosovo e qui finirà”( N. Malcolm, Kosovo. A Short History).
Il Kosovo, a seguito della guerra del ’99, è una regione sotto protettorato ONU: formalmente ancora parte della Serbia ma praticamente abitata quasi esclusivamente dall’etnia albanese (il 95%), è gestita amministrativamente dalle Nazioni Unite. Caratteristiche del Kosovo, attualmente, sono di aver una presenza massiccia di militari della NATO (si conta la presenza di soldati provenienti da 35 nazioni in un lembo di terra più o meno grande come il nostro Abruzzo); un’economia praticamente inesistente con un’alta percentuale di disoccupazione e con il sostegno alle famiglie garantito quasi esclusivamente dalle rimesse dei connazionali residenti all’estero. Anche se sono passati quasi dieci anni dalla guerra e sono stati investiti miliardi di euro in interventi di aiuto e sviluppo, il Kosovo fa fatica ad ingranare e continua a rimanere una delle regioni più povere di tutta l’area balcanica.
La guerra in Kosovo si è connotata per essere l’ultima fase conclusiva della guerra civile (anche se le rivendicazioni di autonomia a sfondo nazionalista sono state da sempre più forti in questa regione, alla quale si fa anche risalire lo scoppio delle guerre degli anni ‘90, con un discorso fatto da Milosevic nel ’89 a Kosovo Polje, località vicina al capoluogo Pristina) che ha portato alla disintegrazione della Repubblica Federale di Jugoslavia e con essa l’ideale del maresciallo Tito di promuovere, con una politica “del bastone e della carota”, la convivenza tra le diverse etnie che per secoli sono sempre state in lotta tra loro.
Le guerre nei Balcani hanno infatti una precisa genealogia che da un lato è recente (guerre balcaniche e guerre mondiali oltre ai recenti episodi degli anni ’90), dall’altro si perde nella notte dei tempi fra dominazioni turche e asburgiche e la formazione di identità nazionali in tutta l’area. Si può affermare che almeno dall’Ottocento ogni due generazioni si è scatenata una vera e propria guerra nell’area balcanica: abitualmente con una generazione che resta in stallo per consentire a quella successiva di rimettersi in azione. Guerre che hanno devastano la regione, riproponendo all'infinito un modello di convivenza basato su un equilibrio distruttivo. Ed in queste diverse guerre, che l’hanno resa una delle regioni più instabili a livello mondiale, le diverse comunità sono state, a seconda dei periodi storici, vittime o carnefici.
In Kosovo gli anni ’90 sono stati gli anni della repressione da parte della comunità di minoranza numerica ma più forte politicamente, i Serbi, contro la maggioranza numerica ma povera e tenuta in repressione, gli Albanesi, i quali hanno subito soprusi e violenze di ogni genere. La comunità albanese creò in quegli anni una sorta di stato clandestino a dir poco capillare, fatto di scuole, sanità, sostegno economico, tutto all’oscuro dei serbi. Ora che, dopo la guerra del ’99, la comunità albanese rappresenta la maggioranza numerica e politica, la sparuta comunità serba residente in Kosovo, deve subire le stesse angherie subite dagli albanesi in precedenza. Di conseguenza i serbi si sono attivati per creare scuole parallele, aiuti economici, ecc. Tutto in maniera clandestina e quindi illegale. E la storia si ripete.
Il Kosovo albanese negli ultimi anni si è nutrito dei miti legati alla guerra di liberazione, alla rivendicazione territoriale, ai diritti da sempre negati ma ora pretesi di autodeterminazione come popolo. Ma sono miti fasulli, creati dal nulla, che con un soffio cadono giù, come i castelli fatti di carte da gioco. Miti fomentati dalla stessa classe dirigente albanese, atti probabilmente a distrarre la gente con queste forme di mitopoiesi onde evitare che l’interesse popolare si focalizzasse sulle questioni urgenti da risolvere per cambiare finalmente il corso di una storia connotata fin troppo da crimini e violenza. In realtà i kosovari hanno rinunciato alla autodeterminazione in cambio della presenza massiccia in tutto il territorio delle forze armate straniere della NATO e della amministrazione delle Nazioni Unite ed ovviamente del fiume di soldi annessi e connessi. Vivono in una terra che non amano, che realmente non sentono propria. Infatti il territorio “liberato” dalla guerra NATO non è rispettato come proprio patrimonio, come qualcosa da salvare e valorizzare. La terra, tanto reclamata come patria, è da anni violentata, sfruttata, rapinata come fosse territorio nemico. Nessun piano per la rivitalizzazione della produzione economica, ma affari illeciti; nessuna valorizzazione del patrimonio energetico, naturale ed economico, nessuna valorizzazione umana che non riguardasse le poche famiglie di fortunati. La popolazione è stata suddivisa in miracolati e paria, in beneficiati e penalizzati, in vincitori e vinti soltanto in nome dell’appartenenza etnica e di quella sociale a seconda dei clan di provenienza ed anche della qualità dei crimini commessi. E per chi visita il Kosovo ciò che salta tristemente subito all’occhio sono i maltrattamenti che quella bella e verde regione devono subire da parte della maggioranza albanese: incuria, distruzioni, costruzioni abusive e tonnellate di rifiuti ovunque. Tutto ciò ha il sapore di un atto di riconoscenza di non essere a casa propria ma di qualcun altro (Cfr. F.Mini, Buco nero, stato mafia e/o stato canaglia, in Limes, Kosovo. Lo stato delle mafie, Gruppo Editoriale l’Espresso, n°6, 2006). Ed infatti la cura, la pulizia, l’ordine, sono elementi che contraddistinguono solo ed esclusivamente l’interno delle case degli albanesi. Caratteristiche che denotano un atteggiamento tipico dell’essere umano: la cura è riservata solo per proprie cose. Le immondizie, la sporcizia, il degrado, sono lasciati fuori dalla porta di casa. L’unica cosa da preservare, il vero ed unico mito su cui si fonda la cultura albanese è la famiglia, che ha nella casa il concretizzarsi del suo essere. Il codice genetico del Kosovo, come quello dell’Albania (ed infatti stiamo parlando del Kosovo albanese, non di quello serbo, o rom, o gorano, o turco, cioè il Kosovo del rimanente 5% della popolazione presente nella regione) affida alla famiglia un ruolo preminente. Le regole e le prescrizioni sociali che hanno validità discendono in parte dal Kanun, codice di condotta comportamentale prodotto nel XV secolo dal principe albanese Lekë Dukagjini, eroe della resistenza all’Impero ottomano. Le regole riguardano tutti gli aspetti della vita sociale: famiglia, matrimonio, casa, società, lavoro, onore, giustizia.
Per quanto riguarda il sistema familiare, codificato dal Kanun, l’unica famiglia possibile è quella di tipo patriarcale e si basa sul clan, ossia una famiglia allargata con a capo il maschio più anziano. La donna è considerata come un otre, fatta per portare peso; il suo unico scopo è legato alla riproduzione. I matrimoni sono lo strumento per stabilire alleanze tra famiglie e quindi combinati all’insaputa degli interessati.
Il Kanun, codice vecchio di settecento anni, non può rappresentare di certo l’unica chiave di lettura della società kosovara. Però storia e tradizione si sono parzialmente tramandate, forgiando una struttura sociale incline a chiudere il gruppo in una forma familiare allargata, cosa che ha influenza su ogni aspetto della vita sociale, sulla politica e sulla gestione delle istituzioni (Cfr M. Tacconi, Uno stato in miniatura, una mafia onnipotente, in Narcomafie, Giugno 2007).
In Kosovo l'individuo non appartiene a se stesso, ma alla società familiare. Il nome non è importante, è il cognome che fa la differenza: le persone sono riconosciute esclusivamente per essere parte di un clan. Non esistono persone sole, e quelle poche che ci sono, sono dei disgraziati, rifiuti della società che non avranno alcuna possibilità di riscattarsi. È molto importante cogliere la dimensione subliminale di questo processo di familismo a tratti fanatico, perché questo rende ragione anche di eventi gravi – come può essere una guerra etnica – che sembrano fuori dalla storia e dalla civiltà, ma che in realtà sono dentro una programmazione genealogica familiare ed acquistano il senso di una continuità storica improntata alla necessità di vendetta, di riparazione dei torti subiti, di sacrifici umani che in termini molto concreti possano sanare le antiche ferite. Ed infatti uno dei pilastri su cui si è retta la cultura albanese per secoli è stata la faida familiare, contemplata dal Kanun.
Sono affermazioni piuttosto gravi. D’altronde uscire dall’inconsapevolezza e dalla banalità della violenza significa riappropriarsi della memoria in senso critico e rielaborativo, abbandonando una visione basata sulla pura e semplice rievocazione del passato. Basti considerare come gli albanesi del Kosovo venerino Giorgio Castriota Scanderbeg - Gjergj Kastrioti Skënderbeu, le cui prodezze di resistenza contro le mire espansionistiche dei turchi risalgono al ‘400, ma realmente sono in pochi a conoscerne il contesto storico, la storia e le motivazioni di questo personaggio. Ogni ricostruzione storica è complessa e richiede riflessione, senso critico e di rielaborazione di quello che è avvenuto.
Il procedimento di rielaborazione storica è un processo formativo e culturale che necessariamente dovrebbe impegnare un’intera generazione per essere efficace. Sembra una ripetizione di quello che successe alla fine della seconda guerra mondiale: tanti paesi europei pretesero di uscire dalle dittature senza fare i conti con il loro passato. Questo purtroppo è avvenuto anche in Italia. E proprio partendo dalla nostra storia che si può affermare la necessità che i popoli vissuti in una situazione di profonda violenza debbano essere aiutati a ritrovare la capacità di uscire dagli “ingorghi genealogici”, ed a ritrovare il senso della memoria costruttiva.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Se i kosovari ( gli albanesi) non curano l'ambiente tranne lo spazio interno casa, questo non significa che non la sentono come la loro terra (qui non parliamo di opinioni ma di storia, lo sanno anche i sassi che quella terra è albanese), ma, tutto quello che hanno passato dalle repressioni serbe, maltrattamenti di ogni genere, la distruzione dai serbi di ogni bene che avevano (anni 90), la situazione tesa, mancanza di risorse, la violenza genera solo il male di conseguenza.
Auguro agli kosovari albanesi al più presto integrità, libertà e autonomia, quell'autonomia negata ingiustamente per un secolo.